Dopo tanta attesa, il 29 novembre è approdato nei cinema italiani “Bohemian Rhapsody”, biopic sul grande Freddie Mercury e i suoi Queen.
Più di venticinque sono stati gli anni di attesa per un biopic che consacrasse a fama eterna l’immenso Freddie Mercury e i suoi Queen. Un film che ripercorresse quel meraviglioso processo che altro non è stato che la creazione di un mito.
Tuttavia, il prodotto di Bryan Singer (ben consigliato dalla coppia di irriducibili May-Taylor) si discosta in larga parte dall’essere una pellicola biografica, preferendo virare verso acque più hollywoodiane dove la storia si piega e si plasma per accontentare le esigenze di un pubblico “non specializzato”, che si aspetta un bel ritmo narrativo a suon di cliché e coup de théâtre.
D’altra parte, è innegabile che “Bohemian Rhapsody” non intenda proporsi come un documentario impegnato a svolgere un’ordinata linea del tempo della creatura “Queen”: per questo esiste Wikipedia e un numero imprecisato di biografie semi-serie di cui, in buona parte, non se ne sentiva francamente il bisogno.
Sul piano interpretativo, è evidente che ciascun attore conosca il proprio ruolo nel gioco delle parti e si sforzi di non prendere grandi deviazioni lungo la via; d’altro canto, all’interno di questa cornice, riesce a emergere un po’ a sorpresa la dolcezza del rapporto tra Freddie (Rami Malek) e Mary Austin (Lucy Boynton), che, vuoi un po’ che gli attori sono giovani, vuoi un po’ che gli attori sono (troppo?) belli, non lascia indifferente soprattutto lo spettatore che si aspettava l’annunciato silenzio sulla vita privata di Freddie.
Rami Malek sembra ben consapevole dello spessore del suo personaggio (non inutili sono stati i mesi di preparazione al ruolo, per decisione autonoma dell’attore prima che gli venisse assegnata la parte), nonostante attesti la propria interpretazione su una frequenza cardiaca nella norma, facendo emergere un’onnipresente fragilità emotiva che, benché sia innegabile appartenesse a Freddie, non si può considerare il suo leitmotiv caratteriale.
Raccontare l’iter creativo che accompagna la maieutica dei pezzi immortali dei Queen poteva essere il vero fulcro di “Bohemian Rhapsody”: la sorpresa per i profani e la sensazione di casa per i proseliti del mondo musicale davanti alla nascita di una canzone, magari proprio quella canzone, è qualcosa che sarebbe stato possibile rendere, ma che è stato solo sfiorato, quasi fosse un dovere narrativo di cui liberarsi in fretta.
È di emozioni vere che “Bohemian Rhapsody” è carente: non impatta, non colpisce, preferisce un’aurea mediocritas che sicuramente non si addice ai Queen e tanto meno alla loro voce. A dispetto di uno scontato e tristemente sterile “cosa ne penserebbe Freddie?” sarebbe forse più significativo chiedersi: “cosa ne pensa John Deacon?”. Perché forse, ma forse, al di fuori dalla spirale terribilmente politically correct di questo film, è rimasto la sola vera voce di Sua Maestà.
Alice Francescone
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