RIVOLUZIONE. Cruijff e il suo Ajax furono il Sessantotto del calcio, anche se arrivarono con un anno di
ritardo sul palcoscenico più prestigioso: nella finale di Coppa dei Campioni a Madrid nel 1969 furono sì
sonoramente battuti per 4-1 dal Milan di Rocco, ma si presentarono al grande pubblico in tutta la loro
(ancora imperfetta) bellezza. Negli anni Settanta il gioco spettacolare e sincronizzato dell’Ajax e dell’Olanda (la cui struttura portante era ovviamente costituita dai fuoriclasse della squadra di Amsterdam) lasciò tutti senza fiato. Mai prima di allora si erano visti dieci uomini di movimento correre all’unisono per coprire ogni angolo del terreno di gioco, scambiandosi i ruoli senza sosta e lasciando spesso inebetiti gli avversari per novanta minuti.
SPAZIO. Cruijff ridisegnò la geometria del campo da calcio dialogando con i compagni di squadra con
ubriacanti triangoli o inventando letteralmente il passaggio smarcante con intuizioni al limite del
fantascientifico. La manovra avvolgente degli orange o dei lancieri instupidiva gli avversari per rapidità e
precisione, consentendo al marcatore di turno di finalizzare facilmente l’azione d’attacco. Per Cruijff tutto
era spazio da occupare con la palla o con il corpo fino alla linea di porta avversaria. E se lo spazio non c’era? Beh, bastava semplicemente crearlo!!!
ISTINTO. Cruijff e il pallone erano una cosa sola. Che si trattasse di impostare l’azione, smarcare il compagno meglio piazzato o cercare direttamente il gol, si può star certi di trovare lo zampino del grande Johann – cui non mancavano certo le doti acrobatiche – nella manovra della squadra. Su tutti un gol “impossibile” segnato con la maglia del Barcellona contro l’Atletico Madrid in campionato agli albori della sua avventura spagnola, mentre la seconda rete al Panathinaikos nella finale di Coppa dei Campioni del 1971 rappresenta la quintessenza del gioco di squadra prodotto dai lancieri di Amsterdam. Ne sa qualcosa Marco Van Basten, che raccolse il testimone da Cruijff e ne carpì ogni segreto mentre divideva lo spogliatoio con il maestro ormai a fine carriera.
QUATTORDICI. Chiedi ad un olandese cosa rappresenta il numero 14 e la risposta sarà quasi sempre:
“Johann Cruijff”. Questa cifra stampata sulla schiena ha infatti accompagnato il fuoriclasse olandese per
quasi tutta la carriera. Dallo sfortunato mondiale in Germania Ovest nel 1974 – in cui Cruijff strappò una
delle tre linee Adidas dalla maglia per renderla unica (una sorta di personalizzazione ante-litteram, avanti di 20 anni anche in questo) – alle centinaia di gare con le maglie di club di Ajax e Barcellona. Quando sbarcò in Catalogna nel novembre 1973 riportò il titolo spagnolo in casa blaugrana dopo 14 anni (il Barça non vinceva dai tempi di Suarez e Helenio Herrera). E quando morì, qualcuno sommò le cifre della sua data di nascita (25-04-1947) e della sua data di morte (24-03-2016): la differenza tra i due numeri (32 e 18) fa 14…
CATALANO. Sebbene sia nato e cresciuto in Olanda, Johann Cruijff è uno dei calciatori più amati nella
regione spagnola. Lasciò l’Ajax per il Barcellona perché fu la prima squadra europea a cercarlo (quando però le frontiere della penisola iberica erano ancora sprangate dall’autarchismo franchista). A nulla valsero le cifre offerte dal presidente Santiago Bernabeu per portarlo al Real Madrid: la parola d’onore era già stata data agli acerrimi rivali. Battezzò Jordy, nome prettamente catalano, il primogenito, cui non riuscirà però a trasmettere geneticamente il talento. Guidò il Barcellona per un quinquennio, riportandolo ai vertici del calcio spagnolo ed europeo dopo il lungo dominio madridista: con lui in panchina il Barça metterà finalmente in bacheca l’agognata Coppa del Campioni (l’ultima con questo nome) nel 1992, mancando clamorosamente il bis due anni dopo quando la manifesta superiorità del Dream Team blaugrana naufragherà di fronte alla concretezza del Milan operaio di Capello e del “Genio” Savicevic.
Fabiano Ghilardi